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Economia

UN ALLIEVO DI FEDERICO CAFFE’: ” MI DITE SU CHE BASI ESSERE OTTIMISTI SULL’ITALIA?

Ho avuto il piacere di avere una proficua discussione telefonica con un consulente di alta direzione, 30 anni di management presso gruppi famosi italiani, laureato alla Sapienza con Federico Caffè. Gli chiedo, alla luce degli eventi bellici, che effetti avrà sul sistema industriale. Leggetelo: ” faccio una premessa, vale a dire la questione del debito. L’Italia pre-pandemia aveva già un debito pubblico alto, poi con il covid lo Stato è dovuto intervenire per sostenere imprese, commercianti e disoccupati, spesa corrente, quel che si dice “debito cattivo” che non porta ad investimenti con moltiplicatori superiori a uno. Si  è dovuto fare ma il debito deve essere ripagato. Mi dice lei come si farà? Spostando la tassazione dai redditi ai patrimoni, aumentando le rendite catastali, visto che il risparmio degli italiani è un multiplo del debito pubblico. Nei media le notizie economiche importanti vengono dette in quattro righe, buone per gli addetti ai lavori, mentre i giornali sono pieni di notizie economiche irrisorie per la loro importanza. E’ intervenuta la politica monetaria, ma Caffè diceva che è come un’aspirina, fa abbassare la febbre ma non la fa passare. Un dato sottaciuto dai media è il rapporto derivati/pil mondiale, che è pari a 33/1. Mi dice lei cosa potrebbe succedere? I tassi di interesse sono negativi, la Bce, per le tensioni inflazionistiche, aumenterà forse i tassi di interesse, dopo la Fed. Se succedesse l’intero sistema economico collasserebbe per  i debiti contratti e perché tutta questa liquidità è finita alla speculazione che ha trovato un asset allocation con rendimenti più alti. Mi dice lei in cosa essere ottimisti? La grande impresa italiana è andata via, rimangono le PMI, magari eccellenti, ma che non riescono a muoversi in questa complessità economica, sono ex artigiani brillanti che non sanno districarsi nella finanza e con esposizioni bancarie a breve termine. Ora c’è il conflitto ucraino, dopo la pandemia c’è lo shock energetico, assieme agli aumenti dei tassi è un mix micidiale che farà saltare il sistema industriale”.

Gli domando: eppure dottore nel 2021 c’è stato il record delle esportazioni, cosa vuol dire? Mi risponde: “le faccio una domanda io. Quanto è caduto il pil nel 2020? Del 9% giusto? Lo sa quanto abbiamo recuperato?” Gli ribatto, 6.5%. Lui fa: ” di questo la gran parte deriva dal Superbonus, spesa pubblica, al netto di questa voce abbiamo recuperato appena l’1,5% netto”.

Gli chiedo se si riapre il fronte sud della Via della Seta, lui ribatte” cosa esportiamo, nei prossimi tre anni quante PMI rimarranno visto che ci sarà una carneficina economica? Sa cosa diceva Caffè? L’economista ragiona a lungo termine, il politico a breve, non prende mai decisioni impopolari e se nessuno le prende mi dice lei come facciamo?”.

Alla fine cita Galbraith, il Grande Crollo, affermando che l’economista americano scriveva del crollo del 1929, noi abbiamo avuto quello del 2008, la bolla esplosa, poi alimentata ancora e pronta a scoppiare nuovamente. Mi dice: “lo sa che la Bce ha avuto perdite sul Qe? Si rende conto, una banca centrale con tassi negativi, fuori da ogni logica, che ha perdite. A questo punto siamo”.

Lo ringrazia e ci siamo promessi che ci risentiremo.

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Economia

GUERRA: C’E’ DEL METODO NELLA FOLLIA DELLE CANCELLERIE OCCIDENTALI

Ieri domenica, vedevo un pò di siti, media italiani, ma li scartavo, tutti che invitavano alla guerra. Poi sono andato su facebook. E ho visto due post. Uno, di Gudo Salerno Aletta, allarmato dalla follia delle cancellerie occidentali, l’altro, dell’analista Pierluigi Fagan, che mi ha fatto riflettere molto. Guarda caso alle 5:30 di stamane mi arriva un messaggio vocale di un direttore di una multinazionale asiatica, business advisor, Spatto, che, sulla base di un articolo di visualcapitalist.com, dice le stesse cose. Ho trascritto di tutta fretta, prima di iniziare a lavorare, il file audio, potrebbero esserci degli errori per la qual cosa mi scuso. Lo lascio parlare: “ciao, ti mando un messaggio, cerco di fare un intervento un po’ analitico; leggo su molti giornali stranieri e italiani soprattutto  voci che danno per scontato un passaggio e cioè l’unione della Russia alla Cina ma non danno per scontato l’altro passaggio, l’unione dell’Europa agli Stati Uniti. Allora è su quest’altro passaggio che io vorrei soffermarmi, magari se tu non la pensi come me può intervenire, possiamo fare un dibattito. Il problema è molto semplice, non credo che l’escalation verbale e di baggianate che dicono le cancellerie europee sia dettato dalla follia e basta, ovviamente gioca anche l’impreparazione, ovviamente gioca anche il basso profilo culturale di questi personaggi, penso Di Maio, penso anche il ministro degli esteri inglese che sbaglia le mappe non conosce neanche la geografia, ma ovviamente tutte queste componenti agiscono come agivano durante la gestione pandemica, dove tutti si erano trasformati in improvvisati virologi da bar sport .Oggi ci sono ministri degli esteri che hnnoa una cultura da bar sport e in questo senso bisogna rimpiangere i grandi della Prima Repubblica italiani e i grandi che hanno fatto l’Europa nel dopoguerra dai Curchill a De Gaulle fino arrivare alla Merkel, giganti al confronto di questi nanetti. Quindi si può che ci sia la follia,  puoi esserci l’impreparazione ma non credo.

Questa escalation di parole, mandiamo le armi centomila Hardy dice il cancelliere tedesco,, su la spesa militare tedesca, mandiamo 500 milioni di armi letali 450 armi letali, 50 milioni di euro di carburanti all’Ucraina, quindi praticamente in entrata in guerra; che differenza ci sarà mai tra un Ucraina nella Nato e Ucraina armata dalla Nato, non credo che vi sia molta differenza, quindi mi sto interrogando sul questa escalation fino arrivare al blocco della banca centrale russa, al blocco dei pagamenti internazionali fino a qualcuno che delira su blocco delle carte di credito dei circuiti visa master card a tutti i cittadini russi per mettere pressione su Putin. Allora se invece guardiamo da un punto di vista razionale potrebbe essere che dietro questa escalation verbale ci sia in atto un piano e qual è il piano? Il piano è staccare l’Europa dalla Russia indubbiamente, costruire il Ttp, praticamente il risultato è che gli europei in questo trattato economico si vanno a collegare con l’altro che fu lavorato da Obama e poi portato avanti dai giapponesi per l’Asia, praticamente la costruzione di un’area economica che ha quasi miliardo e 300 milioni di abitanti ma che rappresenta il 60% del gdp mondiale. Ora le ultime statistiche danno intorno a 94 trilione la somma tra  gli Stati Uniti e l’Europa, poi bisogna aggiungerci appunto l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, l’Inghilterra e così via fino arrivare quasi 60%, quindi l’idea io penso che sia quella di costruire nel mondo una cortina di ferro economica divisa in 2 :da un lato il capitalismo occidentale, dall’altro lato qualunque altra roba sotto il concetto ombrello di dispotismo autoritarismo dittatoriale ecc. Certo, ora a questo passaggio corrisponderebbe un rientro dell’industria delocalizzata in paesi esteri in Europa e questo avrebbe come passaggio obbligato la spinta sul mercato interno . E’ chiaro che un’area che presenta 60% del gdp ha un potere di pressione enorme nei confronti non so di un paese del nordafrica non schierato, di un paese del mediterraneo tipo l’Egitto,  pensiamo un paese tipo l’Indonesia, Singapore, la Tailandia, pensiamo a un paese tipo il Pakistan . Paese tipo l’india avrebbe il potere di ricatto fortissimo se venisse detto o tu stai con noi o tu stai contro di noi ed esci da circuito finanziario, esci dalle possibilità di pagamenti, esci da tutto Cioè potrebbe che su questo che mi sto ponendo ci sia una logica in questo che a noi pare una follia delle cancellerie”

Sul mercato interno come la mettiamo? Lui risponde: “Ogni mercato interno a una propensione al consumo, dettato dalla mediana demografica,  Il Ttip ha una media alta, ma non altissima, rispetto alle aree “dittatoriali”, ma con l’entrata nell’area di paesi come Turchia o Egitto la mediana si abbasserebbe. In più farebbero rientrare le produzioni.”

In Europa dovrebbero abbassare il rapporto export/pil, mentre la Cina ha un rapporto export pil al 17%, il più basso al mondo. Come faranno?

“Devi ragionare come macroarea, Ttip non come Europa. Se il piano americano andasse in porto la Cina non avrebbe più la forza di essere il polo della crescita mondiale ma soltanto della sua area di riferimento geopolitica.
E così il piano americano avrebbe ottenuto quello che si voleva. Fermare la perdita di centralità in questo secolo. Fermare o rallentare la propria decadenza. La Cina collassa perché la sua borghesia creata da Deng è legata ai circuiti finanziari mondiali e alla logistica mondiale. Senza di essa la borghesia cinese collasserebbe e porrebbe problemi di tenuta alla dirigenza cinese. Ci dobbiamo aspettare 20–30 anni di arretramento della Cina, questo penso. Ma siamo sicuri che la Cina starà al gioco americano .Cosa potrebbe fare di alternativo nel mercato mondiale? Questi sono i temi attuali per un pensiero strategico alternativo al metodo americano”.

 

Il dibattito è aperto, chiunque volgia intervenire è ben accetto.

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Italia

UN CONSULENTE DI IMPRESA: SALTA IL SISTEMA INDUSTRIALE EUROPEO

Sempre più sto cercando di sentire la voce di operatori economici, da imprenditori a sviluppatori di aziende a consulenti aziendali. Oggi ho avuto modo di sentire un consulente aziendale che vive al nord, si occupa di assetti societari di tante imprese. E’ stato un colloquio molto cordiali, lui ha voluto sentire la mia alla luce dello scritto di stamane dal titolo Gli Usa, dopo il fronte sud, bloccano il fronte est della via della seta.

Parliamo di quel che sta succedendo, dello scenario ucraino. Lui afferma: già in questi mesi il prezzo del gas era a livelli stratosferici, l’intervento governativo per calmarlo è stato un palliativo oltretutto parziale, affatto risolutivo. Ora sarà durissima la situazione, specie se bannano la Russia dallo Swift.

Gli chiedo che effetti avrà sul sistema industriale, lui risponde che potrebbe saltare del tutto, così come quello europeo. Mi dice che per carattere non si preoccupa mai, ma questa volta è molto preoccupato, le conseguenze sono imprevedibili. Comunque vada, dice lui, l’Italia e l’Europa si indeboliranno molto, assai più che negli ultimi trent’anni.

Gli chiedo il sentore degli imprenditori, mi promette che mi farà sapere nei prossimi giorni, alla luce degli eventi degli ultimi due giorni. Per l’intanto mi fa sapere che fino ad ora, complice la propaganda massiccia, gli imprenditori sono stati con il governo ma nei prossimi due mesi, complice la tenaglia Greenpass e vicende ucraine e russe, il sentore potrebbe cambiare di colpo. Quando si vedono prezzi alle stelle, chiusure di aziende, allora l’atteggiamento potrebbe cambiare. Mi farà sapere nei prossimi giorni dai suoi clienti e ne darò conto successivamente. Ancora è presto.

Ha letto il mio articolo di stamane, lui ritiene che il fronte sud si potrebbe riaprire grazie agli americani (che controllano Gioia Tauro), facendo entrare le merci cinesi non come strumento di collaborazione, ma di controllo dei flussi commerciali. Il sud potrebbe avere un ruolo in tutto questo, visto che ormai il fronte est è chiuso.

Lo ringrazio della disponibilità e della cortesia e a risentirci con lui.

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Economia

GLI USA, DOPO IL FRONTE SUD, BLOCCANO IL FRONTE EST DELLA VIA DELLA SETA

Non mi addentro nelle tematiche della guerra, voglio fare un’altra considerazione. Nei siti cinesi durante l’ultimo anno e mezzo si dava conto dell’esplosione dei transiti ferroviari, anche a seguito del boom dei prezzi dei noli marittimi, tra la Cina e l’Europa. Il mercato era arrivato a valere il 14% dell’intero interscambio Cina Europa. Il transito passava per la Russia, la Bielorussia e l’Ucraina, per poi arrivare a Duisburg, Germania, dove c’è uno snodo merci fondamentale per l’intera Europa. La stessa Italia era arrivata a programmare transiti ferroviari con la Cina, attraverso lo snodo di Melzo, in Lombardia. Il transito ferroviario suggellava l’asse Germania ,Russia Cina, un asse commerciale ma che aveva ricadute politiche visto che era criticato dagli Stati Uniti. Non solo gli Usa, inglobando l’Ue nella guerra con la Russia, hanno bloccato North Stream, non solo ci saranno sanzioni che colpiranno la Russia e come un boomerang l’Ue, ma lo stesso interscambio ferroviario con la Cina si bloccherà con conseguenze gravi per gli esportatori europei. Certo, c’è il mare, ma il costo dei noli marittimi è esplosivo da due anni e molti piccoli operatori non se li possono permettere. Viene dunque bloccato il fronte Est. Gli Usa avevano già bloccato il Fronte Sud (Italia) con i repentini cambi di politica governativa ed estera nel nostro Paese, che nel giro di tre anni passava dall’accordo sulla Via della Seta e ostracismi diplomatici fomentati dagli americani. Ai cinesi rimane il Pireo, ma non ha linee autostradali e ferroviarie. La Cina dunque perde una parte dei commerci con l’Ue. Gli Usa a questo punto si rivolgeranno al Mar cinese meridionale per bloccare i traffici marittimi cinesi e fomenteranno rivolte in Egitto per bloccare il canale di Suez. Alla Cina rimane l’Asia e l’asse Cina, Russia, Pakistan e Iran, un blocco unico capace di compensare le perdite europee. Di fondamentale importanza il “Corridoio Pakistano” che la Cina ha ultimato e che arriva al porto di Gwdar. Se questo blocco regge e si sviluppa, assieme al Rcep, la storia dei commerci internazionali potrebbe dopo secoli cambiare, con perdita di centralità europea. Tre di questi paesi sono potenze atomiche, la Cina da anni contribuisce alla loro industrializzazione in cambio di sbocchi al mare e/o materie prime. Non ho idea di come finirà in Ucraina, il fronte est commerciale è perduto. Si tratta di vedere quali altri verranno aperti. Di certo, l’Europa ci perderà. Aver rinunciato ad una propria autonomia strategica e aver seguito gli americani, che altro non volevano che la rottura dell’asse Germania Russia Cina sarà nei prossimi decenni fatale.

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Italia

GLI INVESTITORI ESTERI PUNTANO SULL’ITALIA

Ho avuto un colloquio con un imprenditore, un consulente aziendale che si occupa di sviluppo di aziende. Gli ho chiesto come vede la situazione negli ultimi mesi in Italia dal punto di vista imprenditoriale. Lui dichiara: ” ci sono alcuni settori economici molto dinamici, in primis l’alimentare che è da due anni che va molto forte, è un settore che traina sia a livello interno sia a livello estero. E poi il settore legato alla casa. Poi ci sono, nel mercato interno, altri settori che soffrono. Principalmente calzaturiero e abbigliamento, per via delle minori spese degli italiani, un pò per timore, un pò perché sono beni voluttuari, che possono essere rimandati. Nell’ultimo periodo c’è una forte vivacità da parte di operatori esteri che sono sbarcati in Italia e che hanno aperto molti store e piattaforme produttive”. Gli chiedo chi sono questi operatori, lui risponde: “principalmente tedeschi e polacchi. Nel nord stanno aprendo molte attività e sono molto dinamici. Anche i cinesi, ma qui c’è da dire che, sì, sono imprenditori cinesi, ma che sono riusciti ad italianizzare il brand, la qualità è migliorata e anche la gestione aziendale risente del criterio dell’italianità. Un campo dove sono molto attivi negli ultimi tempi i tedeschi sono i parchi logistici. Loro in questo settore sono presenti in tutto il mondo e ultimamente sono sbarcati in massa in Italia. Gli americani non ci sono, nel food funziona solo Mcdonald’s ,ma per il resto non sono riusciti a penetrare. Certo, l’Italia sta diventando molto attrattiva per gli operatori esteri e ciò contribuisce alla dinamicità degli affari nel Paese”. Infine gli domando quanto stanno incidendo i costi delle materie prime e dell’energia. Lui risponde: ” credo che sia necessario un intervento, i rincari stanno colpendo fortemente gli operatori economici. Non tanto i grandi, che possono trovare soluzioni, quanto gli artigiani e i piccoli imprenditori. Sono in contatto con diversi di loro che lo scorso anno hanno messo su progetti di costruzione di aziende e che ora si sono visti arrivare costi due tre volte superiori a quanto preventivato”.

L’importante testimonianza dell’imprenditore, che ringrazio, dà conto di un fenomeno che viene taciuto dai media, chissà perchè, vale a dire una forte attrattività del Paese agli investitori esteri. Lui stesso mi dice che dopo il nord sbarcheranno nel centro sud e questa è una novità. Lo ringrazio vivamente.

 

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Italia

GLI IMPRENDITORI ITALIANI, NONOSTANTE TUTTO, REGGONO

Due notizie oggi, una negativa, l’altra positiva. Iniziamo dalla prima: è vero, gennaio è sempre stato un mese difficile per il saldo commerciale italiano extra Ue, ma il dato uscito oggi dall’Istat è significativo. Vi è un deficit della bilancia commerciale pari a 4,2 miliardi di euro, il deficit energetico passa da 2 a 6 miliardi. E non era ancora scoppiata la guerra con i prezzi energetici alle stelle. Di questo passo forse ci mangiamo il surplus commerciale nel 2022, se le cose non dovessero migliorare. E’ dire però che le esportazioni a gennaio sono andate benissimo, +5,3% mese su mese e addirittura + 19% anno su anno, dopo aver superato nel 2021 il record del 2019. C’è una vivacità imprenditoriale che non viene fermata dal rincaro delle materia prime, dai costi energetici, dalle incertezze nazionali e mondiali. E’ come se fossero formiche che riescono a destreggiarsi nel mercato mondiale, anche grazie ad una classe lavoratrice preparata (gli stessi imprenditori dicono che sono tra i migliori al mondo). E’ un dato da tenere conto, nonostante le tempeste in arrivo. Significativo il +26% di esportazioni di prodotti italiani in Russia, quando già c’erano le prime tensioni. Se avessimo mantenuto in questi 30 anni l’altro caposaldo, il mercato interno, e le aziende pubbliche, capaci di dare energia e semilavorati a prezzi calmierati, l’imprenditoria italiana non la fermava nessuno. Certo ,sono contro Confindustria, perché penso che molti industriali non vi si riconoscano, è antimoderna, non al passo con i tempi. Purtuttavia c’è un fervore industriale che lascia sperare in futuro, se non altro perché difendere quel poco di capitale industriale rimasto è estremamente importante per il Paese e per la stessa classe lavoratrice. Gli operai fronteggiano i padroni, non le fabbriche, quelle le difendono. Questa vivacità è altresì rispecchiata nei dati dell’indice di fiducia delle imprese usciti oggi, c’è un fisiologico calo, ma non un crollo, le aziende reggono, nonostante tutto. Se avessimo una classe politica che riuscisse a destreggiarsi meglio nella diplomazia la situazione sarebbe migliore. Si tratta di pensare all’interesse nazionale, simil Mattei, e non fare i cagnolini degli altrui imperialismi. Ne beneficeremmo tutti.

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Cina

GUERRA: E SE AVVANTAGGIASSE LA CINA?

Butto giù un’ipotesi. Ho scritto che con la guerra l’Europa rischia l’immiserimento e dunque la Cina avrebbe un mercato, importante, di sbocco in meno. Ma ho anche scritto che dal Primo gennaio è in vigore il RCEP, vale a dire l’accordo di libero scambio tra sud est asiatico, Corea, Cina e altri paesi. E’ il più grande accordo di libero commercio esistente al momento e che sconvolgerà le filiere produttive, i commerci internazionali e l’innovazione tecnologica. Ora, al momento, il gas in un anno in Ue è cresciuto del 1.620%. Ho dato testimonianza di un industriale che già nell’ultimo trimestre dell’anno vedeva il suo settore, l’agroalimentare e affini, soffrire molto, con anche chiusure produttive. Chiunque legga i media può trovare in questi ultimi due mesi testimonianze di industriali che dicono che la situazione si è aggravata ancora di più, con chiusure produttive diffuse. Solo il 10 marzo avremo il dato della produzione industriale italiana di gennaio, ma Confindustria sta gridando a gran voce al Governo di intervenire. Ci si metta pure il rincaro delle materie prime e la situazione è chiara. Perché tale scenario avvantaggerebbe la Cina? Questo paese non è più quello di 30 anni fa, fortissime spese in istruzione e ricerca e sviluppo ne fanno un polo tecnologico avanzato, al pari dell’Occidente. Ora compete armi alla pari con Europa e Usa. Veniamo ad Europa: in Cina il tasso di inflazione è pari all’1.6%, tende a diminuire, in Ue supera il 5% e le vicende ucraine, con l’ulteriore rincaro dei prezzi energetici, la vedono al 6%. Il differenziale inflazionistico dunque è tutto a favore dei cinesi, che eroderanno quote di mercato agli europei sui mercati mondiali, principalmente l’Asia. Quando scoppiò la crisi dei subprime un economista chiese ad un funzionario cinese come avrebbero fatto con l’Ue in crisi. Questi rispose: c’è l’Asia. Inoltre, i prezzi del gas in Ue, per volere proprio, sono spot, a mercato (che fa sì che schizzino in alto), il gas russo in Cina è stato concordato a prezzo fisso a lungo termine. Il vantaggio energetico cinese sull’Ue è evidente. Quanto agli Usa, questi approfitteranno della guerra per far confluire capitali sul mercato borsistico, buono per l’aristocrazia finanziaria americana, ma hanno poca industria. Venderanno armi all’Europa, LNG, ma la loro capacità produttiva l’hanno distrutta 50 anni fa. La Cina detiene il 30% del capitale industriale mondiale, l’Ue il 15% (ma va sempre più diminuendo). Se la guerra implica la chiusura dell’asse di ferro Germania Russia (Scholz ha cestinato North Stream), non è detto che gli europei non si rivolgano sempre più allo scenario asiatico. La Cina dunque avrebbe un asse di ferro con la Russia e intensificherebbe, in ambito Rcep, la collaborazione-competizione con gli europei. Solo verso maggio potremo avere i dati del commercio estero cinese, tedesco e italiano di questo periodo e farci due conti. Nell’attesa, assistiamo ad eventi tragici fomentati dall’imperialismo occidentale. Mosse contro Russia e Cina. Sulla Russia vedremo, ma sulla Cina si sono fatti male i conti.

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Italia

IL TRIONFO DELLA RENDITA

Ripropongo un mio scritto, pubblicato da La contraddizione,  del 2006 sul processo di privatizzazione delle municipalizzate, pensato circa 30 anni fa, messo in punto nel 2005 e ora attuato dal governo Draghi. Si vedrà che tutte le privatizzazioni sono a favore dell’aristocrazia finanziaria del paese e tendono all’attacco del salario sociale di classe. Siamo in guerra, come sapete, ma l’Italia è in una guerra economica da 50 anni, a partire da Piazza Fontana, volta a stroncare il movimento operaio. Ci sono riusciti e ora gli avvoltoi ne prendono i resti, come iene. Buona lettura.

 

IL TRIONFO DELLA RENDITA

la Cassa depositi e prestiti e la centralizzazione finanziaria

Pasquale Cicalese

Una massa crescente di capitali confluiva verso gli impieghi immobiliari

e soprattutto verso gli investimenti statali.

Al debito pubblico contratto direttamente dallo stato si aggiungeva

quello contratto per mezzo di enti parastatali: la Cassa depostiti e prestiti,

imprese di pubblica utilità, ecc., tutti rivolti a finanziare

i lavori pubblici dello stato e dei comuni. Lo stato, potenziando

questi organismi di credito e gli organi preposti alla raccolta del risparmio,

si avviava a divenire il più grande dei banchieri per cooperare direttamente

con l’alta banca nell’approvvigionamento di mezzi finanziari ai grandi industriali.

[Pietro Grifone, Il Capitale finanziario in Italia]

 

 

La lunga citazione di Grifone, che descriveva con queste parole la politica economica del Conte Volpi, in parallelo all’accordo di palazzo Vidoni e della Carta del lavoro del 1927, serve da sfondo ad una serie di decisioni da parte del ministero dell’economia circa il riassetto di istituzioni finanziarie quali la Cassa deposti e prestiti [Cdp] e le poste. Accanto ad esse occorrerà concentrare l’attenzione nuovamente sul federalismo fiscale e sul processo di privatizzazione delle pubbliche utilità, che nei prossimi anni avranno una forte accelerazione e il cui impatto sul salario globale di classe sarà devastante quanto e più del processo di dismissioni di imprese pubbliche dei primi anni novanta. Si vedrà come la politica economica di Tremonti prima e di Siniscalco poi, simile a quella del Conte Volpi, abbia la finalità di riappropriare lo stato della funzione di “mediatore tra il risparmio e i gruppi interessati a grossi finanziamenti industriali” [Grifone, ivi, Einaudi 1972, p.107], di attuare strategie di centralizzazione finanziaria e di consolidamento industriale nei servizi pubblici e nei monopoli naturali, con la loro successiva privatizzazione, tant’è che il Sole 24 ore definisce la Cdp come il “crocevia della politica economica del governo” [cfr. Cdp, la contesa sulla vigilanza 4.8.2004]. Con le partecipazioni acquisite, la Cdp dà la possibilità allo stato di vendere pacchetti azionari di strategiche imprese per ridurre il debito pubblico, non perdendo al contempo il controllo degli assetti azionari, visto che detiene il 70% del capitale sociale della Cdp. Sembrerebbe la solita partita di giro tipica della finanza creativa, se non fosse che il disegno strategico alla base della nuova missione della Cassa ha a che fare con il riassetto del capitale finanziario, con le dinamiche delle future “politiche industriali” dei monopoli naturali e, soprattutto, con l’estrazione di una massa di plusvalore da sottrarre al controllo degli enti locali, i quali risponderanno al relativo processo di dismissioni e della riduzione dei trasferimenti dello stato con l’abbatti­mento della già esigua “spesa sociale”.

Anzi, proprio la diminuzione dei trasferimenti dello stato agli enti locali e i conseguenti aumenti dei livelli di indebitamento costituiscono l’alibi con cui le amministrazioni locali decideranno nei prossimi anni di ridurre al di sotto del 50% la quota delle loro partecipazioni nelle municipalizzate, una modalità prevista dall’articolo 35 della Finanziaria 2003 o, ancora, aggregarsi e fondersi con altre realtà (inter)regionali. A dare questi “consigli” agli enti locali è lo stesso presidente della Cdp Salvatore Rebecchini, il quale dichiara che “la dismissione di asset strumentali all’erogazione dei servizi pubblici e l’assegnazione della gestione di tali servizi a soggetti privati costituiscono gli elementi chiave per la definizione di una strategia funzionale all’obiettivo di migliorare l’efficienza e ridimensionare l’indebitamento” [Enti locali a rischio finanziamenti, in il Sole 24 ore, 7.11.2004].

Le municipalizzate trasformate in spa sono 710 e per il 73% gli enti locali sono gli unici proprietari o sono azionisti di maggioranza (23,6%), mentre per 3,4% hanno una quota minoritaria. La finanziaria 2005 prevede sconti fiscali sulle aggregazioni e privatizzazioni di quest’universo variegato. Per le imprese quotate si tratterà di immettere nel mercato borsistico ulteriori quote azionarie, per la gioia dei rentier (non esclusi molti “Brambilla” che, memori della lezione dei Benetton, abbandoneranno i loro settori di riferimento per accodarsi al capitalismo delle bollette), in vista di un processo di fusioni e concentrazioni che costituirà, insieme allo scacchiere bancario, il leit motiv delle cronache finanziarie dell’anno in corso. Ad essere interessate a questa escalation di privatizzazioni sono circa milleseicento aziende municipalizzate dei servizi ambientali, energetici, idrici, ecc., per un valore totale che supera i 40 mrd €.

In ultimo, questo processo è un meccanismo teso all’abbattimento del salario globale di classe, soprattutto nelle zone più industrializzate del paese e che si affiancherà – in una sorte di solidarietà di classe, dal punto di vista borghese, of course – al processo regressivo degli assetti socio-economici del meridione pro­vocato dalla riforma federalista di centro-sinistra-destra. Il tutto al servizio delle grandi imprese e del capitale finanziario, che, in un’epoca di crescente sovrapproduzione, si rifugiano sempre più nella rendita, immobiliare e tariffaria. Lo strumento principale è la trasformazione in spa della Cassa depositi e prestiti, avvenuta con la legge 269 del 30 settembre 2003, lo stesso giorno della presentazione della “finanziaria” del 2004. Con questa legge si determina un notevole ampliamento degli scopi statutari dell’istituto, non più solo come la “banca” degli enti locali per i loro investimenti a tasso agevolato – la cosiddetta “gestione separata” basata sulla raccolta postale con un ammontare di mutui che superano i 50 mrd € – ma un mostro a tre teste che potrebbe essere in futuro il fulcro delle scelte strategiche a livello economico e finanziario dell’aristocrazia finanziaria, con la regia di Bankitalia, ritornata in auge, come avevamo preannunciato, e divenendo sempre più il vero dominus economico-finanziario del paese.

 

La Cassa depositi e prestiti ha tre finalità: 1) soddisfare le nuove esigenze finanziarie degli enti territoriali; 2) favorire i processi di riforma e successive concentrazione dei servizi pubblici locali, dai trasporti alla raccolta rifiuti, dall’acqua all’elettricità; 3) sostenere il finanziamento delle infrastrutture tramite la controllata al 100% di Infrastrutture spa, braccio operativo della Legge Obiettivo sulle grandi opere, nota soprattutto per il famigerato progetto del Ponte dello stretto. In ultimo, per statuto, può finanziare privati anche tramite la raccolta presso investitori istituzionali, un’ambigua formula oggetto per questo di strali da parte del capitale finanziario, visto che la sua potenza di fuoco può rappresentare una minaccia seria per le banche concorrenti, a meno che la controllino direttamente, com’è plausibile che avvenga.

Queste ultime caratteristiche fanno della nuova Cdp una vera e propria merchant bank in diretta concorrenza con il sistema bancario nazionale, tant’è che il governatore della banca d’Italia ha preteso che la Cdp rientrasse tra gli organismi finanziari soggetti alla vigilanza bancaria (sottraendolo dai poteri di indirizzo del Tesoro), una richiesta fortemente negata da Tremonti e che costituisce uno dei motivi del defestramento del commercialista di Sondrio. La posta in gioco è talmente grande che Bankitalia, come risulterà qui appresso, non qualifica la Cassa come una normale banca, ma solo come intermediario finanziario speciale non soggetto alla legge bancaria del 1993 che impedisce che una banca abbia più del 15% del capitale di un operatore non finanziario, ottenendo in cambio la vigilanza ed il controllo di stabilità. È una banca, ma è come se non la fosse, al pari di Banco Posta, indirettamente controllato dalla Cdp. Miracoli del capitale finanziario. A ciò si deve aggiungere la trasformazione della Cassa in una sorte di nuova Iri, con una contabilità separata da quello di stato, tale per cui non incide, pur essendo posseduta al 70% dal ministero dell’economia, nel conteggio dei deficit e del debito pubblico secondo i criteri Eurostat.

Infatti, una delle modalità creative dell’ex ministro Tremonti, di abbattere il rapporto deficit/pil 2004, è stata quella di conferire alla Cassa il 10% circa del pacchetto di azioni Eni ed Enel detenute in precedenza dal ministero dell’econo­mia, oltre che il conferimento alla Cdp del 35% di Poste spa, vero e proprio braccio operativo della centralizzazione finanziaria e dell’appoggio alla rendita, come risulterà più avanti. Il tutto attingendo ai conti della Cdp presso la tesoreria del ministero dell’economia, quantificati, dopo l’attribuzione delle suddette quote, nei restanti 20 mrd € e che costituiranno la massa critica delle future politiche industriali della Cdp nel settore dei monopoli naturali. Vi è però una differenza sostanziale fra Tremonti e Siniscalco circa le finalità operative della nuova Cdp, battezzata la “banca delle banche”.

Il primo aveva ideato un braccio finanziario al servizio dello stato, in concorrenza con il capitale finanziario, in vista di un’alleanza operativa con soggetti industriali del centro-nord ruotanti intorno alle pubbliche utilità in mano agli enti locali. Inoltre la Cdp, nel disegno tremontiano, doveva essere un soggetto finanziario forte, capace di accompagnare processi di consolidamento industriale nel mondo delle pmi, anche in vista del probabile restringimento del credito da parte delle banche in ottemperanza ai dettati di “Basilea 2” [cfr. nn.95 e 99] e della fine della vischiosità contabile provocata dall’adozione dei cosiddetti ias (criteri contabili stabiliti a livello internazionale) che faranno piazza pulita, a partire dal 2006, della fumosità dei bilanci delle aziende italiane. La Cdp aveva dunque, nelle intenzioni di Tremonti, la finalità di creare un vasto mercato finanziario alternativo per il mondo delle piccole e medie imprese e si affiancava alla strategia fiscale derivante dalla riforma delle aliquote e, soprattutto, dalla devoluzione. Tutto ciò al fine di creare un atterraggio morbido per quella schiera di industriali uscita sconfitta dall’elezione di Montezemolo a nuovo presidente della Confindustria, che suggellava il trionfo dell’aristocrazia finanziaria. È anche in questo senso che deve inquadrarsi l’uscita di scena del fiscalista di Sondrio, il quale ritorna sulle scene politiche non già nelle com­missioni di bilancio o economiche (su tutta, la discussione della riforma del risparmio), ma presso la Commissione affari costituzionali, dove si è decisa la riforma devolutrice, ampiamente contrastata dalla nuova Confindustria (oltreché nella dirigenza di Forza Italia).

L’ascesa di Siniscalco e il nuovo feeling tra Berlusconi e Fazio, con il primo che si inchina ai diktat del capitale finanziario (in vista di metter mano, col governo stesso, sulle future fusioni bancarie), provoca un ribaltamento della filosofia operativa della Cdp. Su suggerimento del governatore della Banca d’Italia, la Cdp diventa a tutti gli effetti una banca (anche se non rispetta la legge bancaria), con la probabile adesione nella primavera prossima all’Abi, l’associazione delle banche italiane. Ciò significa che Bankitalia eserciterà il controllo sulla sua attività; in pratica dirà la sua in merito all’acquisizione di quote delle Poste, di Eni, di Terna (detenuta al 29,9% – perché il 30% o più farebbe scattare la norma sul controllo), di Enel, di Snam Rete Gas (per la quale è prossimo l’acquisto di un’importante quota) e dell’investimento infrastrutturale dei monopoli naturali, dalla rete ferroviaria alle “pubbliche utilità” locali [sul controllo di Bankitalia si rimanda all’illuminante articolo di Massimo Mucchetti, Cassa Depositi, scudo Bankitalia ed equilibrio dei poteri in Corriere della sera, 25.9.2004]. Il passaggio consiste nel collocamento di ulteriori quote della Cdp ad “investitori istituzionali” (leggasi Fondazioni bancarie e fondi d’investimen­to) e la conseguente supervisione della Bankitalia, vale a dire tutto il contrario dei desiderata di Tremonti, che non voleva affatto il controllo di Fazio sulla sua creatura, per non subire “un commissariamento di fatto della politica economica” [cfr. Fazio conquista la Cdp, in Finanza&Mercati, 18.8.04].

A distanza di circa un anno Fazio riacquista un ruolo impensabile in qualsiasi paese a capitalismo avanzato e con una forte presenza di capitale finanziario; il tutto senza la benché minima adozione di criteri di accountability, vale a dire motivazioni pubbliche di decisioni e atti inerenti le banche e il capitale finanziario italiano in genere. La sua regia è talmente esplicita che durante la “giornata del risparmio” ha apertamente invitato l’imprenditoria italiana a tuffarsi sul settore delle pubbliche utilità dichiarando che “l’iniziativa privata può farsi carico di una quota rilevante del costo degli investimenti allorché interessino la fornitura di servizi remunerati da tariffe” [Relazione del governatore, in Bankitalia, 5.11.2004, p.13].

Si conferma in tal modo il ruolo esplicito di Bankitalia a sostegno dell’aristocrazia finanziaria, vista quale unico soggetto di una (im)proba­bile ripresa dell’accumulazione capitalistica nel paese. In ogni caso, la presa del capitale finanziario sulla “banca delle banche” in realtà era stata attuata già nella primavera del 2004 quando 65 fondazioni bancarie avevano investito un miliardo di euro nella Cdp, detenendo una quota pari al 35% del capitale sociale.

L’investimento è garantito da una serie di clausole e norme volte ad assicurare loro un rendimento minimo garantito, quantificabile dall’inflazione reale più tre punti percentuali fino al 2010 e da un diritto di recesso, a partire dal gennaio 2005, che garantisce loro la liquidità immediata delle attività acquisite. La sottoscrizione è avvenuta sotto forma di 105 milioni di azioni privilegiate, ma con diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie (nuovo miracolo del capitale finanziario nostrano) e c’è da scommettere che nei prossimi anni la quota detenuta dalle fondazioni bancarie aumenterà considerevolmente, trasfor­mando la Cdp come il vero braccio operativo del capitale finanziario.

A concorrere verso questo nuovo assetto è la riforma degli incentivi alle imprese con la costituzione del fondo rotativo di 6 mrd € in conto interesse presso la Cdp, attivando un meccanismo moltiplicatore, vale a dire una “leva finanziaria”, di circa 250 mrd €. La posta in gioco è talmente enorme, ed in concorrenza con le banche italiane, almeno nell’iniziale disegno tremontiano, che Berlusconi, dopo le dimissioni del fiscalista di  Sondrio, ha offerto al capitale finanziario italiano, tramite la Cdp, la gestione del fondo rotativo e le pratiche istruttorie, invitandole ad aumentare la quota sociale nella Cassa[1]. La pax finanziaria è stata suggellata durante l’Assemblea dell’Abi del luglio scorso, durante la quale Berlusconi affermava che la riforma degli incentivi sarà per le banche “una straordinaria occasione” [cfr. Il Cav. incassa la non ostilità di Fazio, ma non la fiducia dei banchieri, im Il Foglio, 9.7.2004][2]. In particolare, la Cassa verserà alle banche le differenze tra i tassi agevolati praticati alle aziende e i tassi di mercato, mentre le banche potranno partecipare al capitale del fondo, offrendo loro la possibilità di diminuire gli incagli e le stesse sofferenze bancarie, così da permettere, in ultimo, di avere rapporti patrimoniali più rispondenti alle regole di “Basilea 2” e ai nuovi Ias, vale a dire le regole internazionali di contabilità [cfr. Fondo per le imprese, Siniscalco bussa alle banche, in Finanza&Mercati, 21.10.2004].

 

Insomma, una sorte di socializzazione delle perdite. Resta il fatto che le intenzioni di Tremonti prima e Siniscalco poi sono quelle di trasformare la Cdp in una vera e propria merchant bank, con importanti partecipazioni nelle grandi aziende, la possibilità di fare credito con il Bancoposta e collocare strumenti finanziari, quali le obbligazioni garantite da un rating superiore a quello “sovrano”, attribuito allo stato [Standard &Poor’s dà un rating AAA]. Nei prossimi anni, infatti, è prevista l’emissione di 22 mrd € di obbligazioni – in specifico covered bond (la prima emissione di 2 mrd € è prevista a gennaio), la cui garanzia è coperta dal patrimonio e dagli attivi delle Cdp (in particolare i crediti verso gli enti locali), utilizzando la rete degli sportelli di Banco Posta [circa il patrimonio e la nuova attività della Cdp si rimanda all’ottimo saggio di Federico Merola – La nuova Cdp – pubblicato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil nel maggio scorso].

Si tratterebbe della prima operazione in Italia, che ha precedenti in strumenti finanziari simili già operativi in Germania [Pfandbriefe] e Francia [Obligation foncières]. La natura privatistica (gestione ordinaria) della Cdp è garantita da un comitato di indirizzo – presieduto dall’ex direttore generale di Bankitalia, l’economista Mario Sarcinelli, nominato dal mondo delle fondazioni – che ha funzioni propositive presso il consiglio di amministrazione, quest’ultimo composto da nove membri, tre dei quali nominati dalle fondazioni bancarie. Nelle intenzioni delle fondazioni il fine della nuova Cdp è il finanziamento e la partecipazione al processo di concentrazione e centralizzazione del prossimo decennio, vale a dire nel settore delle pubbliche utilità, in particolare rete energetiche, reti idriche e gestione dei rifiuti in ambito locale, proprio laddove le fondazioni e le loro banche controllate spingono per un ulteriore processo di privatizzazione di questi settori, in nome della “liberalizzazione dei servizi” delle municipalizzate che, cela, al pari del processo di privatizzazione delle banche, la compiuta centralizzazione finanziaria ed il trionfo della rendita[3].

Si compie in tal modo il trionfo del capitale finanziario, iniziato con la “riforma Amato” dei primi anni novanta, con la privatizzazione delle bim [banche di interesse nazionale], delle telecomunicazioni, delle autostrade, dell’energia e in ultima con la trasformazione in società per azioni delle municipalizzate, alcune delle quali quotate in borsa, e la loro successiva privatizzazione. La successiva mossa sarà un nuovo e più possente processo di concentrazione delle pubbliche utilità e la creazione di un assetto bancario più rispondente al mercato continentale. Il nanismo e la frammentazione di questi importanti settori strategici lasceranno il posto nel giro di un decennio a “campioni nazionali” in grado di sfidare, o perlomeno contrattare alla pari, multinazionali quali la tedesca Rwe e la francese Suez, peraltro già presenti sul mercato italiano. Al momento si vede però soltanto la discesa in campo di operatori continentali: è il caso ad esempio di Edf (monopolio francese dell’elettricità) che aspetta da tre anni il via libera per scalare Edison con un opa da 7 mrd €, mediante l’acquisizione della controllante Italenergia, a seguito di un’opzione put di azioni detenute da banche [37% delle azioni, con Capitalia (14,2%), San Paolo Imi (12,5%), Banca Intesa (10,7%)], dal raider Zaleski (20%) e dal gruppo Fiat (24%, le cui azioni sono in garanzia a Citigroup a seguito di un finanziamento di 1,1 mrd €[4]) da eseguire entro il febbraio prossimo [si veda Private equity, le attenzioni sulla Edison, in Plus il Sole 24 ore, 16.10.2004]. Contro l’acquisizione di Italenergia/Edison da parte di Edf, che eventualmente per superare lo scoglio dell’Opa chiamerebbe altri cavalieri come soci finanziari, ambienti politici e finanziari si stanno organizzando per creare una cordata tutta italiana che conquisti il controllo di Edison: a quest’operazione sarebbero interessati il fondo Clessidra, gradito dal presidente della commissione attività produttive, Bruno Tabacci, la finanziaria Hopa del raider bresciano Chicco Gnutti (famoso assieme a Colaninno per il leverage buy out di Olivetti-Telecom Italia) e Mediobanca.

Sul fronte delle municipalizzate la situazione nei prossimi mesi potrebbe diventare esplosiva: si stanno preparando, infatti, una serie di alleanze geografiche finalizzate alla fusione e alla concentrazione del settore delle pubbliche utilità: il fine è creare player nazionali. Tutte le municipalizzate quotate in borsa hanno, nel corso del 2004, sovravalutato di gran lunga gli indici borsistici a Piazza Affari, con crescite che vanno dal 27 al 50%, segno che gli operatori si aspettano fusioni, incorporazioni e scalate, una possibilità quest’ultima che potrebbe realizzarsi qualora gli enti locali diminuissero la loro quota detenuta al di sotto del 30%. Registi di queste operazioni sarebbero le fondazioni bancarie del territorio di appartenenza, interessate a creare players multiregionali, se non nazionali, che rispecchiano le alleanze bancarie create in quest’ultimo decennio. In vista di questo processo si fa largo l’ipotesi di avviare uno swap (scambio) tra gli enti locali, che controllano le pubbliche utilità e le fondazioni: ai primi verrebbero riservate quote azionarie delle seconde in cambio della vendita di asset delle loro imprese alle fondazioni medesime.

Esplicito al riguardo è il banchiere di Unicredit Fabrizio Palenzona: “posto che la proprietà e la responsabilità delle pubbliche utilità locali nei confronti dei cittadini deve restare ai comuni, il ricorso a fondazioni locali può offrire la possibilità di rendere più trasparente e dinamica la gestione delle municipalizzate e può favorire le aggregazioni in vista delle quotazioni in borsa e di parziali privatizzazioni” [Ripetere il modello delle banche, in il Sole 24 ore, 7.11.2004]. Dall’alto della Cassa depositi e prestiti, “controllata” dalle fondazioni medesime, si avvieranno progetti infrastrutturali, finanziati da emissioni obbligazionarie e soprattutto dalla raccolta postale, per le reti energetiche, idriche e quant’altro che asseconderanno i desiderata del capitale finanziario sulla privatizzazione ed il riassetto delle ex municipalizzate.

 

In tal modo il cerchio si chiude. La Cdp diverrà, tramite la raccolta postale, sempre più uno strumento del processo di centralizzazione al servizio delle banche e delle grandi imprese, le quali, abbandonando i settori di riferimento, quel che in gergo viene definito core business, si tufferanno nelle “chiare, fresche e dolci rendite” [cfr. no.94]. Il processo di concentrazione del settore delle pubbliche utilità sarà parallelo e/o antecedente all’ulteriore processo di concentrazione bancaria giacché sarà uno dei nodi da contendere.

Giusto in questi mesi i giochi si stanno cominciando a delinerarsi. I primi a muoversi sono state l’Amga di Genova, forte nel settore gas, interessata assieme all’Acea all’acquisto di Acque Potabili (società del gruppo Italgas, un’acquisi­zione portata a termine a fine novembre) e l’Aem di Torino, forte nel settore dell’elettricità. Da alcuni anni Mediobanca lavora invece per creare una holding che raggruppi le principali pubbliche utilità del nord Italia (Aem Mi, Aem To e Asm Bs), le cui dimensioni potrebbero competere con i players oligopolistici italiani (Enel, Edison, Italgas e Acea). La regione Lombardia lavora invece a creare un vero polo regionale denominato Lombard utilities che dovrebbe aggregare ventuno municipalizzate e soprattutto l’Aem di Milano e l’Asm di Brescia, entrambe quotate in borsa. Sul fronte emiliano l’Hera di Bologna cerca da più di due anni di andare a nozze con la Meta di Modena e con altre municipalizzate della regione. Nel nord est dovrebbe nascere nei prossimi mesi la Nes (Nord est servizi) che aggrega otto realtà venete e friulane partecipate da 130 comuni, e prossima a nozze con altre municipalizzate del territorio, quali l’Ace­gas di Trieste e l’Aps di Padova [si veda Privatizzate per finta, in Corriereconomia, 25.10.2004].

Va da sé che questo successivo processo di privatizzazione porterà a licenziamenti, ad un ulteriore precarizzazione della forza-lavoro, ad un forte aumento del grado di sfruttamento e a tariffe esose – nel quadro più generale dell’aumen­to delle imposte indirette, tipico della fase di sovrapproduzione – che colpiranno sempre più il salario globale di classe, un copione già visto con le privatizzazioni degli anni novanta. Resta il fatto che è tutto da verificare come possano coesistere deterritorializzazione, frantumazione delle sfere decisionali pubbliche, a seguito della devoluzione, e processi di concentrazione e centralizzazione finanziaria. Certo, la Casa delle Libertà può giocare su due tavoli, ma il banco appartiene ad uno soltanto: all’aristocrazia finanziaria.

E non è detto che sia soltanto italiana.

[1] Vi sono altre due realtà piene di liquidità e pronte per accompagnare l’accumulazione di capitale. La prima è Sviluppo Italia, che controlla la Ream (Rete autostrade marittime), ha diverse partecipazioni in medio-piccole imprese e ha in dotazione circa 800 mln € (agevolazioni per l’imprenditoria giovanile) da investire nel settore turistico e manifatturiero. La seconda è Fintecna, che ha in dotazione circa 2 mrd € e che si candida ad investire questa liquidità, tra l’altro, nel Ponte dello stretto.

[2] Il senatore Grillo di Forza Italia [intervista ad Augusto Minzolini, la Stampa, 21.10.2004], fautore del riavvicinamento con Fazio, dà un’interpretazione pregnante del nuovo sodalizio tra Bankitalia e Berlusconi: “Silvio ha bisogno di riagganciare la Confindustria, gli imprenditori. Il nostro paese è bancocentrico: le imprese non hanno moneta e debbono appoggiarsi sulle banche. Per cui il miglior canale per riprendere i rapporti con la Confindustria è proprio Fazio che ha tutte le banche dietro”.

[3] In realtà si vuole la semplice privatizzazione al fine di creare un mercato oligopolistico. Lo stesso Giuseppe Tesauro, presidente uscente dell’autorità antitrust afferma a proposito: “Si è passati da un’eccezione all’altra. Prima avevamo una forte presenza pubblica nell’industria, con addirittura panettoni e pomodori di stato. Successivamente si è privatizzato solo per fare cassa, senza cedere il controllo delle aziende. O si sono venduti interi monopoli ai privati, molto attratti dai settori protetti. Insomma, una nefasta coincidenza di interessi che di fatto ha compresso i processi di liberalizzazione e privatizzazione” [la Repubblica, 7.10.2004]. C’è da chiedersi che ci sta a fare Tesauro all’Antitrust, ma questo è un altro discorso.

[4] Un altro 14% della quota Italenergia della Fiat è detenuta in pegno dalle banche quale garanzia del prestito convertendo circa 3 mrd € in scadenza per questo inverno. Dalle mosse di Edf dipenderanno le sorti finanziarie della Fiat e il riassetto dello scacchiere del potere del paese. Il risiko coinvolgerebbe infatti banche, assicurazioni, imprese industriali, pubbliche utilità e, last but no least, il riassetto di Mediobanca e Rizzoli.

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CRISI IN UCRAINA, ATTACCO AMERICANO ALL’EURO

Metto il link  apparso oggi pomeriggio su Teleborsa sulla crisi Ucraina dell’economista Guido Salerno Aletta. Come sostenevo due giorni fa, e come chiaramente espresso da Salerno Aletta in questo pezzo, gli Usa vogliono la dollarizzazione dell’Europa. Già con Saddam Hussein ci fu la guerra iraqena perché voleva commerciale il petrolio in euro. Prima ancora la guerra jugoslava agli inizi del percorso dell’euro. Ora Cina e Russia che vogliono commerciare in rublo, yuan ed euro. Si metta pure North Stream, che avrebbe sigillato un’alleanza di ferro Germania Russia in euro, esiziale per il dollaro e il quadro è completo. Forse se la smettessimo di andare dietro notizie dei media ufficiali potremmo avere un quadro della situazione chiara. Occorre dire che gli Usa sono fortemente indeboliti, hanno una posizione finanziaria netta estera negativa per la sbalorditiva cifra di 11 mila miliardi. Da qui la crisi ucraina, che è un attacco all’Europa e all’euro. Se non vengono fermati l’Ue si ritroverà fortemente immiserita, dollarizzata e colonizzata dagli Usa, una strategia americana fatta anche per impedire la saldatura tra l’Ue e l’immenso continente asiatico, dopo quello russo. La potenza talassocratica americana utilizza tutte le armi, financo finanziarie, per attrarre capitale, al fine di impedire queste saldature. Guido Salerno Aletta offre una disamina degli ultimi 50 anni. Buona lettura.

La crisi è in Ucraina, lo scontro è sull’Euro | Teleborsa.it

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ULTERIORE SUPPORTO FISCALE CINESE ALLE PMI

In questi ultimi giorni ho dato notizia della politica fiscale espansiva cinese, in risposta al caos mondiale, focalizzata sulle piccole entità di mercato. Lo scorso anno erano state dedicate loro riduzioni fiscali per 174 miliardi di dollari. Ora, il ministro delle Finanze cinese comunica un ulteriore stanziamento. Come sostenevo due giorni fa si crea il “terzo pilastro”, dopo i colossi pubblici e le grandi imprese private, è l’ora delle PMI. La Cina dopo tanto tempo le sostiene fortemente con tagli di tasse. Misura liberale, quasi “leghista”, che può far storcere il naso ai puristi, ma loro sono pragmatici, sanno che il terzo pilastro dà innovazione alle grandi imprese  e vitalità economica al Paese, specie nelle aree urbane. Come potete leggere, sul fronte delle PMI dei servizi, l’amministrazione pubblica cinese sosterrà le spese di affitto di questa fetta di mercato. Nell’intervistare la settimana scorsa l’imprenditrice che assieme ad altri porta avanti progetti di solidarietà ai lavoratori privi di Green Pass, lei mi ricordava che ha tentato inutilmente presso le associazioni di categoria di far abbassare gli affitti ai piccoli esercenti, pena il deserto commerciale cittadino, come sta avvenendo, in preda agli avvoltoi degli hedge fund. Ora la Cina fa esattamente questo, vista come misura economica per far fronte al calo di fatturato dei servizi a seguito del Covid. Non so se tra i miei lettori ci sono piccoli imprenditori o commercianti o artigiani, con questi articoli spiego che qualcosa si potrebbe fare anche da noi, se solo lo volessimo. Buona lettura.

da IL QUOTDIANO DEL POPOLO DEL 23.2.2022

 

La Cina aumenterà i tagli alle tasse nel 2022 in aggiunta ai tagli appena aggiunti per 1,1 trilioni di yuan (174 miliardi di dollari) lo scorso anno e aumenterà l’allocazione delle entrate fiscali ai governi locali per aiutare a compensare il rallentamento delle entrate, funzionari del Ministero delle finanze (MOF) hanno affermato martedì, mentre il paese attua fermamente politiche fiscali proattive per la sostenibilità nella stabilizzazione della crescita economica. La maggior parte dei governi provinciali ha stimato che le loro entrate quest’anno rallenteranno rispetto allo scorso anno. In risposta, il ministro delle finanze Liu Kun ha dichiarato martedì in una conferenza stampa che è stato “perché abbiamo preso accordi su riduzioni di tasse e commissioni”. “Ma quest’anno aumenteremo i pagamenti ai governi locali per compensare gran parte della loro riduzione delle entrate”, ha affermato Liu, aggiungendo che la politica si baserà sulle regioni sottosviluppate. A gennaio sono stati emessi un totale di 484,4 miliardi di yuan di obbligazioni speciali del governo locale, tutte utilizzate in aree come i trasporti e progetti di alloggi a prezzi accessibili, pari a un terzo dell’importo stanziato dal MOF dalla sua quota del 2022 , secondo Liu. Nonostante il rallentamento dell’aumento delle entrate e una maggiore pressione sulla spesa, i tagli alle tasse alla fine contribuiranno a stimolare la crescita economica e porteranno ad un aumento delle entrate fiscali in un periodo successivo, ha affermato il viceministro delle finanze Xu Hongcai nello stesso briefing. Il MOF ha affermato che rafforzerà il sostegno alle piccole e medie imprese (PMI), alle imprese gestite individualmente e alla produzione aumentando gli incentivi fiscali e utilizzando in modo completo garanzie finanziarie, sconti sugli interessi sui prestiti, incentivi e sussidi per guidare e sfruttare le risorse finanziarie. Il numero di piccole imprese individuali in Cina, che rappresentano i due terzi del numero totale di entità di mercato del paese, ha raggiunto un livello record nel 2021, superando la soglia dei 100 milioni e fornendo 276 milioni di posti di lavoro, dati dell’Amministrazione statale per la regolamentazione del mercato ( SAMR) ha mostrato a gennaio. La Cina ha differito nel 2021 circa 200 miliardi di yuan di tasse per le microimprese e le PMI del settore manifatturiero per aiutarle a far fronte alle difficoltà e sostenere l’economia industriale. “La politica di riduzione delle tasse negli ultimi anni ha prodotto risultati fruttuosi nell’ulteriore adeguamento della struttura del reddito nazionale”, ha detto martedì al Global Times Tian Yun, ex vicedirettore della Beijing Economic Operation Association, aggiungendo che il prossimo passo potrebbe essere il progresso nella riforma fiscale. Per le industrie particolarmente colpite dalla pandemia come il settore dei servizi, dovrebbero arrivare ulteriori misure con i tagli alle tasse dal lato fiscale, inclusa la riduzione dei costi di affitto delle singole imprese e l’agevolazione dei prestiti, ha osservato Tian. Per quanto riguarda la spesa, gli esperti hanno affermato che l’avanzo di bilancio sarà relativamente sufficiente quest’anno e che l’entità della spesa dovrebbe espandersi ulteriormente. Le entrate fiscali della Cina sono aumentate del 10,7% rispetto all’anno precedente a 20,25 trilioni di yuan nel 2021, mentre la spesa è aumentata dello 0,3% a 24,63 trilioni di yuan, secondo i dati del MOF. Dovrebbe essere mantenuta un’adeguata intensità di spesa, concentrandosi sul sostegno in settori chiave come la ricerca scientifica e tecnologica, la protezione ecologica e ambientale, i mezzi di sussistenza di base delle persone, l’agricoltura moderna e i grandi progetti coperti dal 14° piano quinquennale nazionale, e la precisione della spesa dovrebbe essere migliorato, secondo Liu. I funzionari cinesi hanno affermato che adotteranno un approccio moderatamente proattivo  negli investimenti infrastrutturali. Sia il governo centrale che quello locale stanno accelerando il lancio di grandi progetti infrastrutturali mentre il paese deve far fronte a crescenti pressioni economiche al ribasso. In un articolo pubblicato venerdì sul People’s Daily, Liu ha affermato che la Cina amplierà la spesa pubblica per far fronte alle pressioni al ribasso, ma il rapporto disavanzo deve essere fissato a un livello appropriato. “Mentre si determina un appropriato rapporto di disavanzo, la scala del debito dovrebbe essere organizzata scientificamente ei rischi dovrebbero essere efficacemente prevenuti e disinnescati”, ha sottolineato Liu. Il rapporto disavanzo della Cina si è mantenuto al di sotto del 3% per molti anni, ma nel 2020 ha superato per la prima volta il 3%, raggiungendo oltre il 3,6% a causa dello scoppio del COVID-19. “I debiti dei governi locali sono diventati più controllabili rispetto al passato grazie a una serie di aggiustamenti strutturali di bilancio”, ha osservato Tian.