Ripropongo un mio scritto, pubblicato da La contraddizione, del 2006 sul processo di privatizzazione delle municipalizzate, pensato circa 30 anni fa, messo in punto nel 2005 e ora attuato dal governo Draghi. Si vedrà che tutte le privatizzazioni sono a favore dell’aristocrazia finanziaria del paese e tendono all’attacco del salario sociale di classe. Siamo in guerra, come sapete, ma l’Italia è in una guerra economica da 50 anni, a partire da Piazza Fontana, volta a stroncare il movimento operaio. Ci sono riusciti e ora gli avvoltoi ne prendono i resti, come iene. Buona lettura.
IL TRIONFO DELLA RENDITA
la Cassa depositi e prestiti e la centralizzazione finanziaria
Pasquale Cicalese
Una massa crescente di capitali confluiva verso gli impieghi immobiliari
e soprattutto verso gli investimenti statali.
Al debito pubblico contratto direttamente dallo stato si aggiungeva
quello contratto per mezzo di enti parastatali: la Cassa depostiti e prestiti,
imprese di pubblica utilità, ecc., tutti rivolti a finanziare
i lavori pubblici dello stato e dei comuni. Lo stato, potenziando
questi organismi di credito e gli organi preposti alla raccolta del risparmio,
si avviava a divenire il più grande dei banchieri per cooperare direttamente
con l’alta banca nell’approvvigionamento di mezzi finanziari ai grandi industriali.
[Pietro Grifone, Il Capitale finanziario in Italia]
La lunga citazione di Grifone, che descriveva con queste parole la politica economica del Conte Volpi, in parallelo all’accordo di palazzo Vidoni e della Carta del lavoro del 1927, serve da sfondo ad una serie di decisioni da parte del ministero dell’economia circa il riassetto di istituzioni finanziarie quali la Cassa deposti e prestiti [Cdp] e le poste. Accanto ad esse occorrerà concentrare l’attenzione nuovamente sul federalismo fiscale e sul processo di privatizzazione delle pubbliche utilità, che nei prossimi anni avranno una forte accelerazione e il cui impatto sul salario globale di classe sarà devastante quanto e più del processo di dismissioni di imprese pubbliche dei primi anni novanta. Si vedrà come la politica economica di Tremonti prima e di Siniscalco poi, simile a quella del Conte Volpi, abbia la finalità di riappropriare lo stato della funzione di “mediatore tra il risparmio e i gruppi interessati a grossi finanziamenti industriali” [Grifone, ivi, Einaudi 1972, p.107], di attuare strategie di centralizzazione finanziaria e di consolidamento industriale nei servizi pubblici e nei monopoli naturali, con la loro successiva privatizzazione, tant’è che il Sole 24 ore definisce la Cdp come il “crocevia della politica economica del governo” [cfr. Cdp, la contesa sulla vigilanza 4.8.2004]. Con le partecipazioni acquisite, la Cdp dà la possibilità allo stato di vendere pacchetti azionari di strategiche imprese per ridurre il debito pubblico, non perdendo al contempo il controllo degli assetti azionari, visto che detiene il 70% del capitale sociale della Cdp. Sembrerebbe la solita partita di giro tipica della finanza creativa, se non fosse che il disegno strategico alla base della nuova missione della Cassa ha a che fare con il riassetto del capitale finanziario, con le dinamiche delle future “politiche industriali” dei monopoli naturali e, soprattutto, con l’estrazione di una massa di plusvalore da sottrarre al controllo degli enti locali, i quali risponderanno al relativo processo di dismissioni e della riduzione dei trasferimenti dello stato con l’abbattimento della già esigua “spesa sociale”.
Anzi, proprio la diminuzione dei trasferimenti dello stato agli enti locali e i conseguenti aumenti dei livelli di indebitamento costituiscono l’alibi con cui le amministrazioni locali decideranno nei prossimi anni di ridurre al di sotto del 50% la quota delle loro partecipazioni nelle municipalizzate, una modalità prevista dall’articolo 35 della Finanziaria 2003 o, ancora, aggregarsi e fondersi con altre realtà (inter)regionali. A dare questi “consigli” agli enti locali è lo stesso presidente della Cdp Salvatore Rebecchini, il quale dichiara che “la dismissione di asset strumentali all’erogazione dei servizi pubblici e l’assegnazione della gestione di tali servizi a soggetti privati costituiscono gli elementi chiave per la definizione di una strategia funzionale all’obiettivo di migliorare l’efficienza e ridimensionare l’indebitamento” [Enti locali a rischio finanziamenti, in il Sole 24 ore, 7.11.2004].
Le municipalizzate trasformate in spa sono 710 e per il 73% gli enti locali sono gli unici proprietari o sono azionisti di maggioranza (23,6%), mentre per 3,4% hanno una quota minoritaria. La finanziaria 2005 prevede sconti fiscali sulle aggregazioni e privatizzazioni di quest’universo variegato. Per le imprese quotate si tratterà di immettere nel mercato borsistico ulteriori quote azionarie, per la gioia dei rentier (non esclusi molti “Brambilla” che, memori della lezione dei Benetton, abbandoneranno i loro settori di riferimento per accodarsi al capitalismo delle bollette), in vista di un processo di fusioni e concentrazioni che costituirà, insieme allo scacchiere bancario, il leit motiv delle cronache finanziarie dell’anno in corso. Ad essere interessate a questa escalation di privatizzazioni sono circa milleseicento aziende municipalizzate dei servizi ambientali, energetici, idrici, ecc., per un valore totale che supera i 40 mrd €.
In ultimo, questo processo è un meccanismo teso all’abbattimento del salario globale di classe, soprattutto nelle zone più industrializzate del paese e che si affiancherà – in una sorte di solidarietà di classe, dal punto di vista borghese, of course – al processo regressivo degli assetti socio-economici del meridione provocato dalla riforma federalista di centro-sinistra-destra. Il tutto al servizio delle grandi imprese e del capitale finanziario, che, in un’epoca di crescente sovrapproduzione, si rifugiano sempre più nella rendita, immobiliare e tariffaria. Lo strumento principale è la trasformazione in spa della Cassa depositi e prestiti, avvenuta con la legge 269 del 30 settembre 2003, lo stesso giorno della presentazione della “finanziaria” del 2004. Con questa legge si determina un notevole ampliamento degli scopi statutari dell’istituto, non più solo come la “banca” degli enti locali per i loro investimenti a tasso agevolato – la cosiddetta “gestione separata” basata sulla raccolta postale con un ammontare di mutui che superano i 50 mrd € – ma un mostro a tre teste che potrebbe essere in futuro il fulcro delle scelte strategiche a livello economico e finanziario dell’aristocrazia finanziaria, con la regia di Bankitalia, ritornata in auge, come avevamo preannunciato, e divenendo sempre più il vero dominus economico-finanziario del paese.
La Cassa depositi e prestiti ha tre finalità: 1) soddisfare le nuove esigenze finanziarie degli enti territoriali; 2) favorire i processi di riforma e successive concentrazione dei servizi pubblici locali, dai trasporti alla raccolta rifiuti, dall’acqua all’elettricità; 3) sostenere il finanziamento delle infrastrutture tramite la controllata al 100% di Infrastrutture spa, braccio operativo della Legge Obiettivo sulle grandi opere, nota soprattutto per il famigerato progetto del Ponte dello stretto. In ultimo, per statuto, può finanziare privati anche tramite la raccolta presso investitori istituzionali, un’ambigua formula oggetto per questo di strali da parte del capitale finanziario, visto che la sua potenza di fuoco può rappresentare una minaccia seria per le banche concorrenti, a meno che la controllino direttamente, com’è plausibile che avvenga.
Queste ultime caratteristiche fanno della nuova Cdp una vera e propria merchant bank in diretta concorrenza con il sistema bancario nazionale, tant’è che il governatore della banca d’Italia ha preteso che la Cdp rientrasse tra gli organismi finanziari soggetti alla vigilanza bancaria (sottraendolo dai poteri di indirizzo del Tesoro), una richiesta fortemente negata da Tremonti e che costituisce uno dei motivi del defestramento del commercialista di Sondrio. La posta in gioco è talmente grande che Bankitalia, come risulterà qui appresso, non qualifica la Cassa come una normale banca, ma solo come intermediario finanziario speciale non soggetto alla legge bancaria del 1993 che impedisce che una banca abbia più del 15% del capitale di un operatore non finanziario, ottenendo in cambio la vigilanza ed il controllo di stabilità. È una banca, ma è come se non la fosse, al pari di Banco Posta, indirettamente controllato dalla Cdp. Miracoli del capitale finanziario. A ciò si deve aggiungere la trasformazione della Cassa in una sorte di nuova Iri, con una contabilità separata da quello di stato, tale per cui non incide, pur essendo posseduta al 70% dal ministero dell’economia, nel conteggio dei deficit e del debito pubblico secondo i criteri Eurostat.
Infatti, una delle modalità creative dell’ex ministro Tremonti, di abbattere il rapporto deficit/pil 2004, è stata quella di conferire alla Cassa il 10% circa del pacchetto di azioni Eni ed Enel detenute in precedenza dal ministero dell’economia, oltre che il conferimento alla Cdp del 35% di Poste spa, vero e proprio braccio operativo della centralizzazione finanziaria e dell’appoggio alla rendita, come risulterà più avanti. Il tutto attingendo ai conti della Cdp presso la tesoreria del ministero dell’economia, quantificati, dopo l’attribuzione delle suddette quote, nei restanti 20 mrd € e che costituiranno la massa critica delle future politiche industriali della Cdp nel settore dei monopoli naturali. Vi è però una differenza sostanziale fra Tremonti e Siniscalco circa le finalità operative della nuova Cdp, battezzata la “banca delle banche”.
Il primo aveva ideato un braccio finanziario al servizio dello stato, in concorrenza con il capitale finanziario, in vista di un’alleanza operativa con soggetti industriali del centro-nord ruotanti intorno alle pubbliche utilità in mano agli enti locali. Inoltre la Cdp, nel disegno tremontiano, doveva essere un soggetto finanziario forte, capace di accompagnare processi di consolidamento industriale nel mondo delle pmi, anche in vista del probabile restringimento del credito da parte delle banche in ottemperanza ai dettati di “Basilea 2” [cfr. nn.95 e 99] e della fine della vischiosità contabile provocata dall’adozione dei cosiddetti ias (criteri contabili stabiliti a livello internazionale) che faranno piazza pulita, a partire dal 2006, della fumosità dei bilanci delle aziende italiane. La Cdp aveva dunque, nelle intenzioni di Tremonti, la finalità di creare un vasto mercato finanziario alternativo per il mondo delle piccole e medie imprese e si affiancava alla strategia fiscale derivante dalla riforma delle aliquote e, soprattutto, dalla devoluzione. Tutto ciò al fine di creare un atterraggio morbido per quella schiera di industriali uscita sconfitta dall’elezione di Montezemolo a nuovo presidente della Confindustria, che suggellava il trionfo dell’aristocrazia finanziaria. È anche in questo senso che deve inquadrarsi l’uscita di scena del fiscalista di Sondrio, il quale ritorna sulle scene politiche non già nelle commissioni di bilancio o economiche (su tutta, la discussione della riforma del risparmio), ma presso la Commissione affari costituzionali, dove si è decisa la riforma devolutrice, ampiamente contrastata dalla nuova Confindustria (oltreché nella dirigenza di Forza Italia).
L’ascesa di Siniscalco e il nuovo feeling tra Berlusconi e Fazio, con il primo che si inchina ai diktat del capitale finanziario (in vista di metter mano, col governo stesso, sulle future fusioni bancarie), provoca un ribaltamento della filosofia operativa della Cdp. Su suggerimento del governatore della Banca d’Italia, la Cdp diventa a tutti gli effetti una banca (anche se non rispetta la legge bancaria), con la probabile adesione nella primavera prossima all’Abi, l’associazione delle banche italiane. Ciò significa che Bankitalia eserciterà il controllo sulla sua attività; in pratica dirà la sua in merito all’acquisizione di quote delle Poste, di Eni, di Terna (detenuta al 29,9% – perché il 30% o più farebbe scattare la norma sul controllo), di Enel, di Snam Rete Gas (per la quale è prossimo l’acquisto di un’importante quota) e dell’investimento infrastrutturale dei monopoli naturali, dalla rete ferroviaria alle “pubbliche utilità” locali [sul controllo di Bankitalia si rimanda all’illuminante articolo di Massimo Mucchetti, Cassa Depositi, scudo Bankitalia ed equilibrio dei poteri in Corriere della sera, 25.9.2004]. Il passaggio consiste nel collocamento di ulteriori quote della Cdp ad “investitori istituzionali” (leggasi Fondazioni bancarie e fondi d’investimento) e la conseguente supervisione della Bankitalia, vale a dire tutto il contrario dei desiderata di Tremonti, che non voleva affatto il controllo di Fazio sulla sua creatura, per non subire “un commissariamento di fatto della politica economica” [cfr. Fazio conquista la Cdp, in Finanza&Mercati, 18.8.04].
A distanza di circa un anno Fazio riacquista un ruolo impensabile in qualsiasi paese a capitalismo avanzato e con una forte presenza di capitale finanziario; il tutto senza la benché minima adozione di criteri di accountability, vale a dire motivazioni pubbliche di decisioni e atti inerenti le banche e il capitale finanziario italiano in genere. La sua regia è talmente esplicita che durante la “giornata del risparmio” ha apertamente invitato l’imprenditoria italiana a tuffarsi sul settore delle pubbliche utilità dichiarando che “l’iniziativa privata può farsi carico di una quota rilevante del costo degli investimenti allorché interessino la fornitura di servizi remunerati da tariffe” [Relazione del governatore, in Bankitalia, 5.11.2004, p.13].
Si conferma in tal modo il ruolo esplicito di Bankitalia a sostegno dell’aristocrazia finanziaria, vista quale unico soggetto di una (im)probabile ripresa dell’accumulazione capitalistica nel paese. In ogni caso, la presa del capitale finanziario sulla “banca delle banche” in realtà era stata attuata già nella primavera del 2004 quando 65 fondazioni bancarie avevano investito un miliardo di euro nella Cdp, detenendo una quota pari al 35% del capitale sociale.
L’investimento è garantito da una serie di clausole e norme volte ad assicurare loro un rendimento minimo garantito, quantificabile dall’inflazione reale più tre punti percentuali fino al 2010 e da un diritto di recesso, a partire dal gennaio 2005, che garantisce loro la liquidità immediata delle attività acquisite. La sottoscrizione è avvenuta sotto forma di 105 milioni di azioni privilegiate, ma con diritto di voto nelle assemblee ordinarie e straordinarie (nuovo miracolo del capitale finanziario nostrano) e c’è da scommettere che nei prossimi anni la quota detenuta dalle fondazioni bancarie aumenterà considerevolmente, trasformando la Cdp come il vero braccio operativo del capitale finanziario.
A concorrere verso questo nuovo assetto è la riforma degli incentivi alle imprese con la costituzione del fondo rotativo di 6 mrd € in conto interesse presso la Cdp, attivando un meccanismo moltiplicatore, vale a dire una “leva finanziaria”, di circa 250 mrd €. La posta in gioco è talmente enorme, ed in concorrenza con le banche italiane, almeno nell’iniziale disegno tremontiano, che Berlusconi, dopo le dimissioni del fiscalista di Sondrio, ha offerto al capitale finanziario italiano, tramite la Cdp, la gestione del fondo rotativo e le pratiche istruttorie, invitandole ad aumentare la quota sociale nella Cassa[1]. La pax finanziaria è stata suggellata durante l’Assemblea dell’Abi del luglio scorso, durante la quale Berlusconi affermava che la riforma degli incentivi sarà per le banche “una straordinaria occasione” [cfr. Il Cav. incassa la non ostilità di Fazio, ma non la fiducia dei banchieri, im Il Foglio, 9.7.2004][2]. In particolare, la Cassa verserà alle banche le differenze tra i tassi agevolati praticati alle aziende e i tassi di mercato, mentre le banche potranno partecipare al capitale del fondo, offrendo loro la possibilità di diminuire gli incagli e le stesse sofferenze bancarie, così da permettere, in ultimo, di avere rapporti patrimoniali più rispondenti alle regole di “Basilea 2” e ai nuovi Ias, vale a dire le regole internazionali di contabilità [cfr. Fondo per le imprese, Siniscalco bussa alle banche, in Finanza&Mercati, 21.10.2004].
Insomma, una sorte di socializzazione delle perdite. Resta il fatto che le intenzioni di Tremonti prima e Siniscalco poi sono quelle di trasformare la Cdp in una vera e propria merchant bank, con importanti partecipazioni nelle grandi aziende, la possibilità di fare credito con il Bancoposta e collocare strumenti finanziari, quali le obbligazioni garantite da un rating superiore a quello “sovrano”, attribuito allo stato [Standard &Poor’s dà un rating AAA]. Nei prossimi anni, infatti, è prevista l’emissione di 22 mrd € di obbligazioni – in specifico covered bond (la prima emissione di 2 mrd € è prevista a gennaio), la cui garanzia è coperta dal patrimonio e dagli attivi delle Cdp (in particolare i crediti verso gli enti locali), utilizzando la rete degli sportelli di Banco Posta [circa il patrimonio e la nuova attività della Cdp si rimanda all’ottimo saggio di Federico Merola – La nuova Cdp – pubblicato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil nel maggio scorso].
Si tratterebbe della prima operazione in Italia, che ha precedenti in strumenti finanziari simili già operativi in Germania [Pfandbriefe] e Francia [Obligation foncières]. La natura privatistica (gestione ordinaria) della Cdp è garantita da un comitato di indirizzo – presieduto dall’ex direttore generale di Bankitalia, l’economista Mario Sarcinelli, nominato dal mondo delle fondazioni – che ha funzioni propositive presso il consiglio di amministrazione, quest’ultimo composto da nove membri, tre dei quali nominati dalle fondazioni bancarie. Nelle intenzioni delle fondazioni il fine della nuova Cdp è il finanziamento e la partecipazione al processo di concentrazione e centralizzazione del prossimo decennio, vale a dire nel settore delle pubbliche utilità, in particolare rete energetiche, reti idriche e gestione dei rifiuti in ambito locale, proprio laddove le fondazioni e le loro banche controllate spingono per un ulteriore processo di privatizzazione di questi settori, in nome della “liberalizzazione dei servizi” delle municipalizzate che, cela, al pari del processo di privatizzazione delle banche, la compiuta centralizzazione finanziaria ed il trionfo della rendita[3].
Si compie in tal modo il trionfo del capitale finanziario, iniziato con la “riforma Amato” dei primi anni novanta, con la privatizzazione delle bim [banche di interesse nazionale], delle telecomunicazioni, delle autostrade, dell’energia e in ultima con la trasformazione in società per azioni delle municipalizzate, alcune delle quali quotate in borsa, e la loro successiva privatizzazione. La successiva mossa sarà un nuovo e più possente processo di concentrazione delle pubbliche utilità e la creazione di un assetto bancario più rispondente al mercato continentale. Il nanismo e la frammentazione di questi importanti settori strategici lasceranno il posto nel giro di un decennio a “campioni nazionali” in grado di sfidare, o perlomeno contrattare alla pari, multinazionali quali la tedesca Rwe e la francese Suez, peraltro già presenti sul mercato italiano. Al momento si vede però soltanto la discesa in campo di operatori continentali: è il caso ad esempio di Edf (monopolio francese dell’elettricità) che aspetta da tre anni il via libera per scalare Edison con un opa da 7 mrd €, mediante l’acquisizione della controllante Italenergia, a seguito di un’opzione put di azioni detenute da banche [37% delle azioni, con Capitalia (14,2%), San Paolo Imi (12,5%), Banca Intesa (10,7%)], dal raider Zaleski (20%) e dal gruppo Fiat (24%, le cui azioni sono in garanzia a Citigroup a seguito di un finanziamento di 1,1 mrd €[4]) da eseguire entro il febbraio prossimo [si veda Private equity, le attenzioni sulla Edison, in Plus il Sole 24 ore, 16.10.2004]. Contro l’acquisizione di Italenergia/Edison da parte di Edf, che eventualmente per superare lo scoglio dell’Opa chiamerebbe altri cavalieri come soci finanziari, ambienti politici e finanziari si stanno organizzando per creare una cordata tutta italiana che conquisti il controllo di Edison: a quest’operazione sarebbero interessati il fondo Clessidra, gradito dal presidente della commissione attività produttive, Bruno Tabacci, la finanziaria Hopa del raider bresciano Chicco Gnutti (famoso assieme a Colaninno per il leverage buy out di Olivetti-Telecom Italia) e Mediobanca.
Sul fronte delle municipalizzate la situazione nei prossimi mesi potrebbe diventare esplosiva: si stanno preparando, infatti, una serie di alleanze geografiche finalizzate alla fusione e alla concentrazione del settore delle pubbliche utilità: il fine è creare player nazionali. Tutte le municipalizzate quotate in borsa hanno, nel corso del 2004, sovravalutato di gran lunga gli indici borsistici a Piazza Affari, con crescite che vanno dal 27 al 50%, segno che gli operatori si aspettano fusioni, incorporazioni e scalate, una possibilità quest’ultima che potrebbe realizzarsi qualora gli enti locali diminuissero la loro quota detenuta al di sotto del 30%. Registi di queste operazioni sarebbero le fondazioni bancarie del territorio di appartenenza, interessate a creare players multiregionali, se non nazionali, che rispecchiano le alleanze bancarie create in quest’ultimo decennio. In vista di questo processo si fa largo l’ipotesi di avviare uno swap (scambio) tra gli enti locali, che controllano le pubbliche utilità e le fondazioni: ai primi verrebbero riservate quote azionarie delle seconde in cambio della vendita di asset delle loro imprese alle fondazioni medesime.
Esplicito al riguardo è il banchiere di Unicredit Fabrizio Palenzona: “posto che la proprietà e la responsabilità delle pubbliche utilità locali nei confronti dei cittadini deve restare ai comuni, il ricorso a fondazioni locali può offrire la possibilità di rendere più trasparente e dinamica la gestione delle municipalizzate e può favorire le aggregazioni in vista delle quotazioni in borsa e di parziali privatizzazioni” [Ripetere il modello delle banche, in il Sole 24 ore, 7.11.2004]. Dall’alto della Cassa depositi e prestiti, “controllata” dalle fondazioni medesime, si avvieranno progetti infrastrutturali, finanziati da emissioni obbligazionarie e soprattutto dalla raccolta postale, per le reti energetiche, idriche e quant’altro che asseconderanno i desiderata del capitale finanziario sulla privatizzazione ed il riassetto delle ex municipalizzate.
In tal modo il cerchio si chiude. La Cdp diverrà, tramite la raccolta postale, sempre più uno strumento del processo di centralizzazione al servizio delle banche e delle grandi imprese, le quali, abbandonando i settori di riferimento, quel che in gergo viene definito core business, si tufferanno nelle “chiare, fresche e dolci rendite” [cfr. no.94]. Il processo di concentrazione del settore delle pubbliche utilità sarà parallelo e/o antecedente all’ulteriore processo di concentrazione bancaria giacché sarà uno dei nodi da contendere.
Giusto in questi mesi i giochi si stanno cominciando a delinerarsi. I primi a muoversi sono state l’Amga di Genova, forte nel settore gas, interessata assieme all’Acea all’acquisto di Acque Potabili (società del gruppo Italgas, un’acquisizione portata a termine a fine novembre) e l’Aem di Torino, forte nel settore dell’elettricità. Da alcuni anni Mediobanca lavora invece per creare una holding che raggruppi le principali pubbliche utilità del nord Italia (Aem Mi, Aem To e Asm Bs), le cui dimensioni potrebbero competere con i players oligopolistici italiani (Enel, Edison, Italgas e Acea). La regione Lombardia lavora invece a creare un vero polo regionale denominato Lombard utilities che dovrebbe aggregare ventuno municipalizzate e soprattutto l’Aem di Milano e l’Asm di Brescia, entrambe quotate in borsa. Sul fronte emiliano l’Hera di Bologna cerca da più di due anni di andare a nozze con la Meta di Modena e con altre municipalizzate della regione. Nel nord est dovrebbe nascere nei prossimi mesi la Nes (Nord est servizi) che aggrega otto realtà venete e friulane partecipate da 130 comuni, e prossima a nozze con altre municipalizzate del territorio, quali l’Acegas di Trieste e l’Aps di Padova [si veda Privatizzate per finta, in Corriereconomia, 25.10.2004].
Va da sé che questo successivo processo di privatizzazione porterà a licenziamenti, ad un ulteriore precarizzazione della forza-lavoro, ad un forte aumento del grado di sfruttamento e a tariffe esose – nel quadro più generale dell’aumento delle imposte indirette, tipico della fase di sovrapproduzione – che colpiranno sempre più il salario globale di classe, un copione già visto con le privatizzazioni degli anni novanta. Resta il fatto che è tutto da verificare come possano coesistere deterritorializzazione, frantumazione delle sfere decisionali pubbliche, a seguito della devoluzione, e processi di concentrazione e centralizzazione finanziaria. Certo, la Casa delle Libertà può giocare su due tavoli, ma il banco appartiene ad uno soltanto: all’aristocrazia finanziaria.
E non è detto che sia soltanto italiana.
[1] Vi sono altre due realtà piene di liquidità e pronte per accompagnare l’accumulazione di capitale. La prima è Sviluppo Italia, che controlla la Ream (Rete autostrade marittime), ha diverse partecipazioni in medio-piccole imprese e ha in dotazione circa 800 mln € (agevolazioni per l’imprenditoria giovanile) da investire nel settore turistico e manifatturiero. La seconda è Fintecna, che ha in dotazione circa 2 mrd € e che si candida ad investire questa liquidità, tra l’altro, nel Ponte dello stretto.
[2] Il senatore Grillo di Forza Italia [intervista ad Augusto Minzolini, la Stampa, 21.10.2004], fautore del riavvicinamento con Fazio, dà un’interpretazione pregnante del nuovo sodalizio tra Bankitalia e Berlusconi: “Silvio ha bisogno di riagganciare la Confindustria, gli imprenditori. Il nostro paese è bancocentrico: le imprese non hanno moneta e debbono appoggiarsi sulle banche. Per cui il miglior canale per riprendere i rapporti con la Confindustria è proprio Fazio che ha tutte le banche dietro”.
[3] In realtà si vuole la semplice privatizzazione al fine di creare un mercato oligopolistico. Lo stesso Giuseppe Tesauro, presidente uscente dell’autorità antitrust afferma a proposito: “Si è passati da un’eccezione all’altra. Prima avevamo una forte presenza pubblica nell’industria, con addirittura panettoni e pomodori di stato. Successivamente si è privatizzato solo per fare cassa, senza cedere il controllo delle aziende. O si sono venduti interi monopoli ai privati, molto attratti dai settori protetti. Insomma, una nefasta coincidenza di interessi che di fatto ha compresso i processi di liberalizzazione e privatizzazione” [la Repubblica, 7.10.2004]. C’è da chiedersi che ci sta a fare Tesauro all’Antitrust, ma questo è un altro discorso.
[4] Un altro 14% della quota Italenergia della Fiat è detenuta in pegno dalle banche quale garanzia del prestito convertendo circa 3 mrd € in scadenza per questo inverno. Dalle mosse di Edf dipenderanno le sorti finanziarie della Fiat e il riassetto dello scacchiere del potere del paese. Il risiko coinvolgerebbe infatti banche, assicurazioni, imprese industriali, pubbliche utilità e, last but no least, il riassetto di Mediobanca e Rizzoli.