In questi ultimi due anni all’Inail ho fatto amicizia con un medico, volontaria cattolica in varie associazioni. Un anno fa le regalai il mio libro, vuole anche la seconda edizione .Ieri mi ha messo in contatto con un volontario di Cava. Oggi l’ho intervistato. Ma stamane, quasi alla pausa, lei mi ha regalato un libro del volontario, che si chiama Antonio Armenante dal titolo “Anche Dio lavora – e noi gli mettiamo i contributi”, editore areablu- Cava de Tirreni. Mi ha fatto la dedica scrivendo: “A Pasquale, cercatore di senso, di verità e giustizia”. Francamente non capii la dedica. Oggi ho intervistato Armenante, ne è uscito un pezzo. Casualmente mi sono messo a leggere il libro, pensavo fosse di pensieri cristiani, invece è uno straordinario spaccato di vita di strada con i senza fissa dimora, con immigrati, con gente disperata tra le più varie. Sono dialoghi tra lui e questa gente emarginata da tutti, che incontrano un cristiano che li aiuta, assieme ad altri. Nel blog ho intervistato una volontaria laica che sta a Milano, mi raccontava della povertà della piccola borghesia. Questo invece è come se fosse un disco di Fabrizio De Andre’, mi viene in mente Smisurata Preghiera, il suo testamento. Non so cosa abbia trovato in me questa amica, so solo che mi ha fatto un dono stupendo che mi arricchisce molto. Procuratevelo. La ringrazio. Leggendolo mi è venuto in mente Pasolini e la sua perduta gente, che lui amava molto. Buona lettura.
Quello che Dio mi da’
Ho incontrato Tan varie volte alla mensa dei poveri e per strada. Non avevo avuto però mai l’occasione di intavolare un dialogo. Eppure sentivo istintivamente che quell’uomo minuto, sulla sessantina, con pochi capelli bianchi, il volto magrissimo, ma attraversato da un’espressione di serenità e dignità incredibile, portava con sé una grande lezione di vita.
Se ne stava a mangiare al solito posto, al solito tavolo, col suo solito silenzio. Ringraziava a modo suo del cibo, portandosi la mano destra sul cuore. Poi, appena finito di mangiare, ripulito e consegnato il vassoio per il lavaggio, issava lo zaino blu sulle spalle (suo cuscino e suo armadio, come mi disse una volta) e zitto zitto, con discrezione, quasi a non voler dare fastidio, andava via.
Una domenica mattina d’inverno, molto fredda, alle cinque ero in strada, nei posti dove sapevo che dormivano i senza fissa dimora. Dopo un giro in una casupola fatiscente e abbandonata, dove sapevo che dormivano dei rumeni, che però non trovai, mi avviai sul lungomare a piedi per recarmi prima sotto il ponte dove passa il fiume e poi alla stazione.
Vidi uscire Tan, avvolto in una coperta, da sotto una barca capovolta, lì posta sopra due assi sul lastrico prima della sabbia. Lo chiamai. Si girò verso di me. Si tolse la coperta, l’arrotolò, la depose in una busta di plastica, prese lo zaino, mi venne incontro. Lo salutai. Rimase per un attimo pensieroso. Poi, portandosi la mano al cuore, disse nel suo discreto italiano: “Oh! tu stai a mensa a darci una mano. Grazie a tutti voi!”
Gli chiesi di venire con me al bar. Regalandomi un sorriso enorme che rese il suo viso splendente, mi disse che era onorato. Si ristorò con un the caldo e un cornetto esclamando: ”Vita sembra rinascere! Ha fatto molto freddo stanotte”. Poi, mi fece capire che voleva andare.
“Tan, quando possiamo vederci? Vorrei parlare un po’ di più con te”. Mi guardò fisso e rispose: ”Sì, Antonio, qualche altro giorno, dopo mensa”.
I giorni successivi però non venne a mensa. La cosa mi creò pensiero perché non mancava mai. Sperai che non gli fosse successo niente, anche perché queste “pietre di scarto” spesso all’improvviso spariscono.
Era ormai venerdì e di Tan ancora niente. Neanche alla mensa era venuto. L’indomani, mi trovavo nei pressi del rione dove si trova la mensa. Erano le sette del mattino. La notte aveva quasi diluviato. Ero appena sceso dalla macchina quando vidi spuntare Tan. Era bagnato fradicio. Camminava con quel suo zaino, quasi a fatica. Gli corsi incontro. Era talmente inzuppato d’acqua dalla testa ai piedi che i panni gli si erano incollati addosso ed i pochi capelli erano diventati tutt’uno. Gli levai lo zaino dalle spalle. Al che si mise la mano sul cuore, mi ringraziò per il gesto e con affanno mi disse: ”Ora devo andare dai missionari per chiedere se hanno altro pantalone, scarpe, maglia e se posso lavarmi e asciugare”.
Gli offrii qualcosa di caldo al bar. Non volle entrare perché aveva paura di bagnare per terra. Gli portai un cappuccino caldo e una brioche. Li consumò velocemente. Lo vidi sorridere. Non mancò di ringraziarmi portandosi la mano sul cuore. Il centro dei missionari distava appena una centinaia di metri da quel bar, per cui volle continuare ad andare a piedi. Lo accompagnai.
Dopo un’ora, sorridente, rivestito da capo a piedi, uscì.
Salì in macchina e ci avviammo. Ci fermammo nel Parco Pinocchio, che lui raggiungeva ogni pomeriggio quando il tempo lo permetteva. Il sole faceva luccicare le foglie ancora bagnate. Dalla loro patina lucente si levavano “coriandoli “di riflessi che sembravano rincorrersi e giocare come i bambini che, intanto, erano cominciati ad arrivare. In macchina non avevamo quasi parlato. Gli avevo rivolto solo qualche frase di circostanza: ”Come ti senti? Ma non potevi ripararti da qualche parte? Vuoi prendere qualche altra cosa?” Egli puntualmente rispondeva ”tutto bene”, per poi tacere.
Ci sedemmo su una panchina. Dopo qualche minuto di silenzio, gli chiesi: ”Tan, ma come hai fatto a bagnarti così?” Rispose abbozzando un sorriso: ”Venivo a piedi, perché sotto barca ora freddo. Ogni giorno, alle quattro di mattina, vado a Salerno. Stamattina è cominciato a piovere tanto, tanto. Io ho continuato a camminare. Su strada difficile trovare riparo.”
Rimasi alquanto interdetto. Egli seguitò: ”Antonio, mia storia longa, longa e difficile”.
Lo interruppi: ”Ma dove dormi?”
“Estate all’aperto in terra sotto un muro non lontano dal Cimitero. Ora autunno ancora lì, sotto capanna di lamiera più lontana. Lì io sto tranquillo. In stazioni o parchi o su mare, non tranquillo. Vengono mbriachi che pure vivere per strada. A volte picchiano per vedere se hai soldi. Quando sono da soli sono bravi. Anche loro tanti problemi. In gruppo e bevuto però fanno paura. Poi altre volte viene polizia: prendono tutti, così sono ordini. Io ho girato e trovato questo luogo tranquillo. Nessuno sa. Ogni tanto, lontano su strada passa macchina e poi morti vogliono stare anche loro tranquilli, come me, aggiunse ridendo. Così ogni mattino, alla stessa ora vado a Salerno. Cammino, non mi stanco. Mi piace silenzio.”
Con il volto che s’illuminava, aggiunse: ”Sto con Dio. Osservo luce che esce, uccelli volare e loro mi accompagnano. Molta gioia. Dopo vengo a mensa. Vengo in questo parco bello a godere se è bello tempo, se no vado sotto porticati. Poi a quattro e mezza mi avvio di nuovo a piedi. Due ore e mezzo di cammino e sono sotto muro, casa mia. Mi basta. Quando mi sento stanco, dormo a Salerno. Cerco per notte luogo solitario. Se invece ho soldi, io prendo pullman. Io non cerco. Mi basta pranzo di mensa, insieme panino per la sera. Poi ho tutto, perché ho vita e Dio.”
S’interruppe, mentre io rimanevo sempre più stupefatto. Ruppi il suo silenzio e gli chiesi: ”Tan, ma da quando sei in Italia? Di dove sei? Perché sei qui?” Mi guardò e con un sorriso dolce e amaro, con la sua sottile voce mi rispose: ”Mia storia longa, longa e dura, Antonio. Io vivo in Italia da quindici anni. Io andato via non per lavoro. Lì tiravo avanti, come dite voi. Prima buon paese gente non cattiva. Poi, guerra civile e tutti più cattivi.”
”Perché sei andato via? Hai famiglia lì?”
Con voce esile mi rispose: ”Guerra civile tremenda. Gente si uccideva per niente. Tanti bambini morivano. Io non potevo sopportare. Non sapevo tenere bocca chiusa. Io non sopporto ingiustizia e violenza. Uccidere è sempre ingiustizia. Uccidere così è ancora più brutto, brutto. Io non potevo sopportare. Io vedevo e parlavo, parlavo e denunciavo. No! Io non facevo ciò per politica. Io sempre apolitico. In me ribellione per umanità. Poi io dire con bocca non cucita che Dio, Dio di tutti, non vuole guerre, uccisioni, vuole bene per tutti e gridavo che offendere Dio di vita, e che questo contro Legge. Mia bocca non poteva stare cucita.”
Si fermò a riprendere fiato, ma subito dopo seguitò: ”Cominciai ad avere minacce. In mio paese i capi di gruppi in lotta pensavano io stare con parte nemica, per cui pericolo da tutte e due le parti per me e famiglia. Io stavo per verità e contro violenza. E poi mia religione, Islam dice non uccidere mai. Dio non è di una religione. Religione è una via, ma tu anche se aderire devi sapere che esistono altre vie e che ci deve incontrare. Ognuno deve uscire da sua tenda! Dio è uno e padre di tutti. Mia vita e vita di mia famiglia molto in pericolo. Io impotente, e mio cuore non poteva ancora sopportare. Così, per non mettere pericolo mia famiglia, ho tre figli, decisi andare via. Sono andato via, non per dimenticare ma perché dolore non mi permetteva di stare. Non era più mia nazione. A miei genitori lasciai bambini. Mia moglie era morta l’anno prima e mia madre era mamma anche per loro. Miei genitori avevano piccola attività, quindi mangiare era possibile. Ero sereno perché stavano bene, non mancava niente. Cominciai a girare, e girare perché dovevo essere “fuori, fuori “da dolore.
Dolore ti accompagna sempre, ma essere fuori ti fa ritrovare vita. Andai in Francia, dove lavorato per qualche anno ora qui, ora là. Ma mia testa diceva sempre di cambiare, non resistere sempre stesso posto. Dovevo essere “fuori, fuori”. Così io sono andato Germania, Torino, Milano, Firenze e altre parti. Sono da 8 mesi in questa provincia”.
”Ma come ti mantenevi?”
“Antonio, quando c’erano forze io cercare il lavoro. Lavorato duro. Quando non avevo lavoro, strada. Mi arrangiavo. Ma io non posso stare ad una sola parte. Quando testa mi comanda, allora io girare. Poi ad un certo punto non avere più forza per lavoro e poi solo sfruttamento e ho preferito stare per strada e non farmi sfruttare. Così strada è diventata mia casa senza mura e tetto e il cielo mio compagno di viaggio. Ma sono contento, anche se dolore non si cancella e ti chiedi sempre perché.”
”Spiegami, Tan, per te la strada è libertà?”.
Si arrotolò una cartina con del tabacco, prima di rispondere.
”Non è libertà. Ma è tua nuova casa, che ti fa vivere. Per quelli come me, la vita ha questa casa. Ti permette respirare, mangiare, dormire, vedere gente, conoscere quelli bravi e quelli no bravi. La strada ti dà anche gioia pure se insieme dolore.”
“Tan, posso chiederti per te chi è Dio? E tu, preghi?
”Antonio, io musulmano e ho grande gioia di Islam. Dio è creatore e misericordia. La sera prego con cuore e con testa. Cuore, perché fiducia in Dio. Farà di me ciò che vuole, e io ringrazio. Testa, per aiuto ad affrontare situazioni, per me, per gente che incontro, per famiglia lontana, e anche per peccatori. Con cuore, prego essere pieno di fiducia, perché ognuno deve essere pieno.”
“Tan – incalzai – pensi che ci sia un’altra vita? Come te la immagini? E cosa pensi di quelli che fanno del male, del loro destino?”
Si accarezzò il viso quasi a riflettere. Poi ribatté: ”lo spero. Penso vita tranquilla, felice, senza problemi di soldi, per vivere. Vita semplice e insieme. Quelli che hanno fatto male dovranno pagare. Bilancia di Dio misurerà cose giuste.”
“Se in questo momento dovessi mandare un messaggio al mondo cosa diresti?“
”Pace, pace e non uccidete e sfruttate. Pulisci tua casa dentro e sarai pulito. Anche religioni devono essere pulite. Se ognuno pulisce sua casa, pulirà anche fuori. Se si fa questo, la vita ha più luce.”
Sentivo che gli faceva bene parlare, che il suo volto diventava più sereno.
”Gesù chi è per te?”
”Messaggero e profeta”, mi rispose deciso.
“Che ti aspetti dalla vita che ancora devi vivere? Hai paura della morte?”
“Sogno vivere tranquillo, non dare fastidio a nessuno, rispettare gente. Insomma, quello che non voglio che gli altri facciano a me, io non devo fare ad altri.” Tacque, poi aggiunse: “Sì! Ho paura della morte”.
“Come scomparsa?”
”Non come mia scomparsa. Voglio morire tranquillo, pulito dentro. Ma se non succede, mi fa paura. Io accetto tutto quello che Dio mi dà. Anch’io sto ricevendo. Ti pare niente vita?”
Ero sconvolto, emozionato. Mi sentii piccolo piccolo.
“Tan, stai ancora dormendo lì?”
“Sì! Ho due coperte nascoste. Sto io e Signore. Prego quando voglio, dormo quando voglio, cammino quando voglio, rispetto regole mia religione. Non do fastidio. Mi lavo a fontanella. Guardo piante come vivono e mi fanno compagnia; guardo luce che come miracolo illumina, vedo uccelli volare. Poi cerco di immaginare pensieri di gente che va e viene, vivo gioia a vedere i bambini uscire di scuola. Insomma, Antonio, sono dentro vita.”
Mi venne naturale abbracciarlo. Insieme andammo alla mensa.
Lo incontro spesso. È una gioia reciproca incontrarci. Lui nel vedermi si porta la mano al cuore.
L’altra notte ho pensato a lui moltissimo. Diluviava. Io nel mio letto caldo, Tan e gli altri chissà dove. La mattina gli ho chiesto dove avesse passato la notte. Mi ha risposto sorridendo. “Antonio, io non andato a piedi, troppa acqua e poi lì all’aperto. Non andare in stazione, perché paura. Vedi, Dio aiuta, ci pensa. Un ragazzo senegalese, cattolico, mi ha visto. Io non conoscevo lui. Mi ha fatto posto sotto sua bancarella, che è a coperto sotto un porticato. Ho dormito tranquillo e asciutto. E poi a inizio novembre si aprirà dormitorio di Missionari Saveriani e avrò un letto. Capisci quante cose ho?“